“Da bruco a farfalla”, l’esperienza di Servizio Civile di Alessandra: “Così in Caritas ho coltivato lo stupore”

“Sono cambiata…”. A confessarlo è Alessandra, 26 anni, folignate, 12 mesi di Servizio Civile appena conclusi alla Caritas diocesana di Foligno, presso il Servizio Mensa. Capelli caramello, tre tatuaggi sulle braccia che raccontano con grazia il suo sguardo sulla vita e un orecchino a forma di mezzaluna che da lontano pare un sorriso perché l’ironia, dice lei, è sua compagna inseparabile di viaggio e far ridere gli altri, dicono tutti, un dono di natura. Un diploma al Liceo Scientifico poi l’iscrizione alla Facoltà di Architettura di Firenze e infine l’esperienza, come tutti, del lockdown che la rinchiude nelle lezioni a distanza e in una vita capovolta ma che non la discosta da quella “missione dello
stupore” di cui sente il marchio sin da bambina.
“Era gennaio 2021 e avevo visto un annuncio su Facebook che la Caritas di Foligno cercava volontari. Sentivo il desiderio di riscattarmi da un periodo che si era impoverito di relazioni ma anche della mia indipendenza, dei miei spazi a cui ero così abituata, del mio tempo di cui non stavo facendo quasi più nulla,
perché ero dovuta rientrare a Foligno. Mi sentivo inutile, così mi sono proposta. In Caritas ho scoperto che c’era anche questa opportunità per giovani e mi hanno spiegato come presentare domanda per il Servizio Civile. Volevo rendermi autonoma ma anche utile – era una cosa a bilaterale, sia per me che per gli altri. Da bando c’erano solo 3 posti e mi dicevo: ‘tanto non riesco, tanto non mi prendono’. Perché c’erano ragazzi che sembravano molto più spigliati di me. E invece sono stata presa io.”


12 mesi, racconta, impastati di stupore, legami forti, storie, profumi, patate lessate e sfide con sé stessa, prima di tutto quella in cucina, segno che chi sa servire davvero è chi sa mettersi in discussione, anche imparando con umiltà tutto da zero. “E adesso so fare gli gnocchi” confessa con una punta di orgoglio
ripercorrendo la ricetta del primo col ragù.
“All’inizio, per via delle normative Covid, c’era l’asporto e non potevamo intrattenerci a parlare troppo a lungo con gli ospiti. Però mi fermavo ad ascoltare come potevo chi aveva voglia di parlare e di dire qualcosa”. Perché, dice lei, quello che più conta è il sapersi stupire dei dettagli, dei piccoli momenti, dei racconti.


“Da sempre l’arte e lo stupore fanno parte di me, sono il mio inizio. Io non sono una da mare, anche durante le vacanze mi piace guardare le persone mentre fanno le cose. Mi piacciono i piccoli dettagli, i piccoli gesti, le storie. C’è sempre una storia dietro alle persone. È questo che mi cattura e che mi ha
catturata anche qui.” E a chi le chiede cosa direbbe ai giovani in età da Servizio Civile commenta: “Abbiamo faticato tanto in questa esperienza che è una sorta di ponte tra l’adolescenza e l’età adulta perché è anche un iniziare a
responsabilizzarsi, a capire che le cose che hai in custodia sono come quelle che hai a casa e che devi averne cura. Per questo è un anno che consiglierei a tutti perché ti prepara davvero ad un “dopo” che è il dopo dell’età adulta, del mondo che è lì fuori dopo la scuola e per cui nessuno ti forma.”
12 mesi però, che sono stati contemporaneamente anche tutto l’opposto: responsabilità e leggerezza, sfida ma anche sogno, un po’ come uno dei tatuaggi che porta sul braccio e che raffigura un elefante che stringe
un palloncino. “Fare il Servizio Civile è stato anche un tornare indietro al liceo: il portare avanti le attività insieme ad altri ragazzi come fossimo un gruppo classe, e anche con i ragazzi che facevano Servizio Civile nelle altre Caritas dell’Umbria e con cui abbiamo condiviso insieme anche un percorso di formazione, passeggiate e laboratori. È come il tatuaggio dell’elefante: nella vita c’è una parte pesante, concreta, che sta a terra, e una parte leggera, onirica, sognatrice. Mi piace esplorare gli opposti. Anche tra i poveri credo
che questa sia una costante”: una parte-elefante, dice, il non avere risorse economiche, ma anche una parte-palloncino di poesia, fatta di gentilezza, di problemi che non pesano più davvero, perché la capacità di relazione, come il palloncino, rende tutto leggero. “Io ho capito che la povertà è una questione di animo. È povero davvero chi è chiuso in sé stesso, chi non ti guarda, chi non ti saluta. Spesso chi ti conosce nemmeno ti calcola per la strada. I poveri invece sì, per questo per me sono ricchi. Tra tutti mi porto nel cuore un ragazzo marocchino che frequentava tutti i giorni la mensa e che per primo spendeva tempo a salutare noi volontari. Non chiedeva mai ‘cosa avete cucinato oggi’ ma salutava prima in Italiano poi in arabo ed era il suo rito.”

“In tutto questo percorso – continua ancora – la sfida più grande è stata iniziare a parlare di me, a partire dal momento delle selezioni. Mi imbarazza quando devo farlo e per questo affronto sempre male gli orali, anche all’università. Qui ho dovuto mettere in discussione questa paura e provare a superarla anche grazie al gruppo che avevo intorno. Poi ho scoperto di essere capace di pazienza. Io prendo fuoco facilmente, devo avere sempre l’ultima parola, e invece ho imparato a farne a meno. Credo che imparare questo sia tutto, anche se richiede tempo”. L’ingrediente segreto, dice, affinché qualcosa duri. Un po’ come il bruco – vero emblema del suo Servizio Civile – che ha disegnato su un foglio davanti a lei, che diventa poi farfalla e che lo fa in maniera bellissima. “Il bruco ci mette tanto per diventare farfalla, ma non perché stia fermo ma
perché cambia più volte. Adesso che ho concluso il Servizio Civile mi sento trasformata e ho con me un bagaglio. Sogno di finire l’università e diventare architetto, ma con lineamenti diversi, libera di essere chi sono, come la farfalla. O forse mi sento più una crisalide, che sta nel mezzo del processo e a cui la farfalla dice: Tieni duro!”

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